L’utilità della speranza

Partendo dalla dea e arrivando ai giorni nostri, un po’ atei, un po’ stanchi, mi chiedevo se sperare fosse utile. Non sano, non bello, non buono. Semplicemente utile.

Alcuni potrebbero affermare che sia non solo utile, ma di vitale importanza. Senza la speranza, cosa rimane?

Rimane la realtà. Resta il qui e l’adesso. Il qui potrebbe essere bello per alcuni e brutto per altri. Così, del resto, è quel presente che a stento riusciamo a vivere in modo consapevole.

La speranza, tuttavia, accompagna la nostra mente nel bene e nel male. Se va bene, speriano duri. Se va male, speriamo cambi.

Forse, e dico forse, dovremmo imparare a sperare di meno e a vivere di più. Dove vivere significa agire, agire in modo consapevole. Ragionare, scavare oltre la superficie dell’apparenza e della facilità.

Calvino diceva di prendere la vita con leggerezza, senza pesi sul cuore. Aborriva la superficialità tipica di generazioni passate e presenti. Significa, probabilmente, di liberare l’esistenza dal peso del condizionamento, di dare valore alla nostra anima e di agire di conseguenza.

Tutto ciò che distrae da questo modo di vivere, è destinato ad appesantire il corpo, schiacciare l’anima. Uccidere l’uomo.

L’uomo al quale rimarrà solo una dea, barlume dell’idea di una esistenza migliore. Una speranza su tutte e che impedirà di vivere.

Non me ne vogliano gli studiosi, per me, oggi, sperare è tempo perso.

Giorgia

Morte che cammina

Lo ha detto mio marito. È vero.

Inganniamo noi stessi e l’economia mondiale, procrastinando l’inevitabile fine.

Vaccini a tutti, bonus al 110% (giusto, loro ci rimettono, non tu), nuovo digitale terrestre (nuova tecnologia per vecchia spazzatura), auto a minore impatto inquinante (davvero?). Tutto per fare girare soldi ed economia. Ci si inventa il lavoro per lavorare.

Che la natura, il clima e la vita stiano andando verso una disfatta inesorabile è chiaro, ma i metodi per rallentare questa caduta sono fallimentari, se si guarda al di là dell’oggi.

Che l’economia sia allo stallo, è chiaro. È palese da un bel po’, direi. Il consumismo brucia il bisogno per creare necessità. Comprare, usare, buttare, compare di nuovo, di più… Anche questo crea inquinamento, del resto.

Ci si illude di pazientare in attesa di una speranza, ormai morta sepolta e, di sicuro, non riutilizzabile. Le opportunità sono state erose dai silenzi e dallo studio senza comprensione.

Alimentiamo i ricchi, impoveriamo i poveri, perdiamo valori e principi, dissipiamo l’umanità e diventiamo morte che respira. Pensiamo che i giovani, soprattutto i nostri figli, potranno rimediare ai nostri sbagli. Quei ragazzi, tuttavia, sono figli di persone che non cambiano una virgola, se non tra le parole che scrivono sui social o che condividono al lavoro con i colleghi, della propria esistenza.

Il cambiamento richiede sacrificio e non sappiamo stringere i denti, come possiamo pensare di trasmettere questo concetto ai giovani? A parole? Con aforismi e massime?

Riflettiamo e impariamo ad agire. Le parole senza gesti, sono solo folate di vento in riva al mare.

Pensiamo a dove indirizzeranno le nostre prossime spese, perché tutte quelle attuali non saranno abbastanza, né abbastanza longeve.

Giorgia

Codice a barre di sistema

Un numero. Ecco cosa siamo. No, forse è riduttivo, avete ragione. Siamo più complessi, siamo una serie di numeri in successione apparentemente casuale. Un codice a barre. Pronti per essere scannerizzati. Emozioni, sentimenti e quella semplice e carina umanità, gettati al vento. In fin dei conti, come i biscotti, abbiamo una data di scadenza, una confezione, un posto dove stare e un indice di gradimento. Cos’altro serve, in un mondo dove l’essere umano conta solo per fare numero (di nuovo) in sede di voto? La libertà, al giorno d’oggi, ha l’aspetto di una buona cena al ristorante (possibilmente da fotografare e da postare su qualche social), di una gita fuori porta (non dimenticate il cellulare!), di una vacanza nel posto più “fico” del momento (il vostro cellulare in mano, mi raccomando!).

La libertà, un po’ come la normalità, sono concetti astratti ed esterni al nostro essere. Sono i paletti ai confini del nostro incedere, per farci sentire parte di un tutto (anche se un nulla di fatto).

Il paradosso è chiaro (va bene, non proprio così chiaro): siamo liberi quando possiamo fare quello che fanno tutti e siamo normali quando ci omologhiamo alla massa più in voga (non inferiore al 75% di ciò che ci circonda).

Cosa dite? I biscotti ingrassano? Suvvia, è giusto così, altrimenti sareste rapidamente deperibili.

Dal supermercato “Life” è tutto, Giorgia